Relazioni tra Mito e Arte di alcune opere conservate presso il Museo Rizzi
L'avventura inizia con la partecipazione al ciclo di conferenze dedicate al Mito, presso la Società Economica di Chiavari.
Lì conosciamo il prof. Sergio Audano e la dott.ssa Raffaella Fontanarossa, entrambi relatori di alcuni di quegli incontri. Nasce così l'idea di portare alcuni di quei contenuti al Museo Rizzi, sottolineando la stretta relazione tra Arte e Mito.
« Nel mio immaginario da persona digiuna di Mitologia, mi ero chiesto se - tra le tante versioni di un mito - ne sarebbe emersa qualcuna più accreditabile, più importante. Su questo punto Audano ha subito chiarito che la vitalità del mito sta appunto nella sua "biodiversità". Ogni epoca, anzi ogni comunità, avevano necessità di rimaneggiarlo, per meglio renderlo efficace presso la gente che lo ascoltava.
Il mito è una narrazione che trova risonanze con il vissuto della persona. Gli specialisti della mente e del cervello parlerebbero di "neuroni specchio" che si attivano, e che ci fanno essere empatici con le emozioni del racconto. Esso ha - tra l'altro - finalità di guida, parlando in modo anche simbolico di quella parte non visibile della esistenza cui talora diamo il nome di mistero. »          [ ndr.]
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Il presidente Baratta introduce il tema e i relatori.
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La sala è tappezzata di quadri del Museo Rizzi a tema mitologico.
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I temi di Mitologia della quadreria vanno oltre quelle trattati dai relatori.
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Anche la parete lato mare accoglie opere in tema con l'evento.
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In questo grandangolo estremo, ecco a destra Minerva, col suo elmo - semplicemente stupenda.
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Sergio Audano è impegnato nel suo racconto. Raffaella Fontanarossa è pronta alla tastiera del PC.
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Il professore appoggia la sua esposizione sulla testimonianza dei classici.
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La dott.ssa Fontanarossa suggerisce nuovi sguardi sul quadro della morte di Euridice.
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Rinaldo Mantovano (1527-38 ca.) La morte di Euridice
Il mito e la sua trasposizione pittorica:
Virgilio inserisce la narrazione del mito di “Orfeo ed Euridice” in un altro mito: quello di Aristeo. La morte di Euridice è stata causata da Aristeo il quale l'ha inseguita tra l'erba cercando di farla sua e, mentre la giovane correva per sfuggirgli, viene morsa da una vipera, che ne causa la morte.
La
scena, incorniciata da un motivo dipinto a nastri elicoidali,
raffigura il momento appena precedente la morte di Euridice, narrato
nelle Georgiche virgiliane
,
allorquando la fanciulla, fuggendo Aristeo, viene morsa da un
serpente (Castelnovi 1972).
Tratti storico-stilistici del dipinto:
La
tavola, acquistata da Vittorio Rizzi nel 1897 (Castelnovi 1972), fu
dallo Hartt (1958) assegnata a Giulio Romano e datata, sulla base di
una comparazione stilistica con gli affreschi della "Sala di
Troia" nel Palazzo Ducale di Mantova, tra il 1536 e il 1538. Per
prima Giuliana Algeri (1983) collocò il dipinto nel più
vasto ambito della scuola giuliesca, individuandone un diretto
riferimento - per iconografia mitologica e calzanti rimandi
compositivi - nel disegno con la Morte
di Orfeo (Parigi, Louvre, n. 3494), ritenuto dalla critica autografo e databile dopo il
1540 (Hartt 1958, n. 299). La studiosa, oltre a ipotizzare la
derivazione della tavola Rizzi da un disegno di Giulio - pendant oggi
disperso di quello parigino -, fu inoltre indotta a stimarla, in
considerazione dei bordi ritagliati e della qualità del
supporto (legno di abete), un frammento di un oggetto d'arredo, quale
un fronte di cassone o un pannello decorativo di una boiserie,
eseguito
intorno alla metà del secolo XVI. Oberhüber ne anticipò
invece la datazione al 1529, in seguito ad un esame stilistico del
disegno del Louvre e ai puntuali riferimenti con gli affreschi della
"Camera dei Venti" nel Palazzo Te, realizzati fra il 1527 e
il 1528.
L'ideazione
progettuale di Giulio è certamente riscontrabile nello schema
compositivo che trasforma l'azione drammatica in sigla decorativa
attraverso sinuosi intrecci di panni e arti e l'uso di un repertorio
tipologico classicheggiante ormai manierato. Il gestire ampio e
concitato delle figure e la resa pittorica densa permettono di
avvicinare effettivamente l'opera in esame sia a brani di affreschi,
come il Laocoonte
e i suoi figli della
"Sala di Troia" di Palazzo Ducale o ad alcuni medaglioni
della "Sala dei venti" di Palazzo Te, sia a dipinti su
tavola, come la Nascita
di Bacco del
Getty Museum (Malibu): se in queste opere si è riconosciuta
una presenza esecutiva di Rinaldo Mantovano, il miglior allievo di
Giulio, tale intervento potrebbe riscontrarsi anche nella tavola
Rizzi, che, per suggerire un'ulteriore ipotesi circa la tipologia
dell'oggetto, potrebbe forse provenire proprio dall'appartamento di
Troia, in origine decorato con una notevole quantità di tavole
mitologiche e storiche e pannelli dipinti ad olio inseriti nelle
pareti, in seguito dispersi (per l'appartamento di Troia: Oberhüber
1989, pp. 135-175). La tavola è stata restaurata nel 1983.
[D.S.]
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Ignoto pittore ferrarese Secondo quarto del sec. XVI Apollo e Dafne
Il mito:
Dafne, figlia di Gea e del fiume Peneo (o secondo altri del fiume Lacone), era una giovane e deliziosa ninfa che viveva serena passando il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi e del piacere della caccia, quando la sua vita fu stravolta dal capriccio di due divinità: Apollo ed Eros. Racconta la leggenda che Apollo, fiero di avere ucciso il mostruoso serpente Pitone, incontrato Eros mentre era intendo a forgiare un nuovo arco, si burlò di lui e del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria. Il dio dell’amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo ed un’altra, spuntata e di piombo, destinata a respingere l’amore, che lanciò nel cuore di Dafne.
Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, fino a quando non riuscì a trovarla. Alla sua vista Dafne, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che gridava il suo amore e le sue origini divine, per cercare di impressionare la giovane fanciulla. Dafne, terrorizzata, scappò tra i boschi ma accortasi che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la stava per raggiungere, invocò la madre Gea, pregandola di mutare il suo aspetto perché tanto dolore e paura le stava procurando.
La madre Gea, ascoltò la sua preghiera e così iniziò a rallentare la corsa della figlia fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in fronde leggere; le sue braccia si levarono alte verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo aggraziato si ricoprì di corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo volto, rigato di lacrime, svaniva nella cima dell’albero. Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di LAURO (dal greco dafne = lauro).
La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne.
Tratti stilistici del dipinto:
Riferito
nell'inventario a Lorenzo Leombruno, il dipinto sembra invece trovare
un più preciso riscontro nell'ambito della produzione
pittorica ferrarese dei primi decenni del Cinquecento, e in modo
particolare in quella di Dosso Dossi. Sebbene non direttamente
attribuibile a tale pittore, la tavola non è priva di quel
carattere aulico ed aristocratico, intriso di ricercati riferimenti
eruditi, riscontrabile nelle sue innumerevoli composizioni profane,
fra le quali le Tre
età dell'uomo (New
York, Metropolitan Museum) e l'Apollo
e Dafne (Roma,
Galleria Borghese).
Simili
al linguaggio pittorico del Dossi sono inoltre alcuni elementi
stilistici che permettono di attribuire questa tavola ad un artista
ferrarese attivo nella sua cerchia intorno agli anni Trenta del
Cinquecento. Derivata dalle suggestioni dossesche è infatti la
resa del tessuto che avvolge la figura di Apollo e la stessa
collocazione ambientale, caratterizzata da una rigogliosa natura che
accentua la preziosa atmosfera nella quale si svolge l'evento
mitologico.
Tali
elementi si ritrovano infatti nel Riposo
dalla fuga in Egitto (Firenze,
Uffizi) e nella Madonna
con il Bambino, un Santo Vescovo, una devota e un angelo di
Budapest, entrambe riferite agli anni 1515-1516 (A. Ballarin, Dosso
Dossi. La pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I,
Padova
1994, schede nn. 347, 354, pp. 303, 305). [G.Z.]
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Heintz Joseph il Vecchio tra il 1590 e il 1609 Ratto di Proserpina
Il mito:
La dea Demetra era particolarmente amata dagli uomini. Proteggeva il lavoro dei campi, faceva maturare i frutti e biondeggiare il grano, ricopriva la terra di fiori e di erbe. Ella aveva una figlia, Proserpina, una fanciulla bionda e soave, sempre sorridente, con due grandi occhi fiduciosi e profondi.
In un mattino sereno in cui il sole illuminava ogni cosa Proserpina, in compagnia di altre ninfe, si divertiva a correre sui prati ricoperti di erba rugiadosa e di fiori multicolori. Le splendide creature ridevano, scherzavano, gareggiavano nel raccogliere rose, giacinti, viole per fame ghirlande e adornarsi le vesti. Ad un tratto avvenne un fatto prodigioso, un terribile boato lacerò l'aria. La terra si spaccò e dal baratro balzò fuori, su un cocchio d'oro trainato da quattro cavalli nerissimi, un dio bello e vigoroso ma dallo sguardo triste. Con le sue braccia possenti afferrò Proserpina e la trascinò con sé incitando i cavalli a correre velocemente.
Era Plutone il dio delle tenebre che, preso dalla bellezza di Proserpina, si era innamorato perdutamente di lei. Aveva chiesto e ottenuto da Giove di poterla sposare, perciò era venuto sulla terra e l'aveva rapita.
La fanciulla atterrita levò in alto terribili grida, ma nessuno udì la sua voce. Implorò il padre Giove ma questi, avendo permesso il ratto, non poté aiutarla. I cavalli intanto galoppavano veloci. Proserpina, prima di entrare nel grembo della terra, rivolse alla madre un'ultima e disperata invocazione. Il suo grido fu così forte che montagne, boschi e prati fecero eco alla sua voce. Demetra l'udì dall'Olimpo. Sconvolta dall'ansia, scese volando in terra. Cercò ovunque l'adorata figlia, vagò per nove giorni e nove notti.
[...] Demetra fece di tutto per riavere la figlia, ma inutilmente ... lo spirito vitale di Demetra si era ormai spento, e si era dimenticata della terra che aspettava la sua protezione. Così a poco a poco i frutti marcirono, le spighe seccarono, i fiori e i prati ingiallirono e infine la terra divenne brulla e riarsa. Giove dovette intervenire, per salvare l'umanità ... si giunse a un compromesso con Plutone [...]
Demetra comprese che il legame tra la sua amata figlia e Plutone era ormai indissolubile e perciò chiese a Giove di poterla avere con sé almeno per una parte dell'anno. Il dio dell'Olimpo acconsentì, così Demetra ritornò finalmente fra gli dei e la natura si risvegliò.
[...] E fu primavera ... così nacquero le stagioni [...]
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Sebastiano Ricci (1659-1734) Leandro morto pianto dalle Nereidi
Il mito:
Il giovane Leandro, che viveva ad Abido, amava Ero, sacerdotessa di Afrodite a Sesto, città posta sulla costa opposta, attraversava lo stretto ellespontino a nuoto ogni sera per incontrare la sua amata. Ero, per aiutarlo ad orientarsi, accendeva una lucerna. Una notte una tempesta spense la lucerna e Leandro, disorientato, morì tra i flutti. Decise di seguirlo nella sorte anche l’innamorata, affranta dal dolore.
Tratti stilistici del dipinto:
« […] talune rudezze anatomiche che [Sebastiano Ricci] saprà evolvere egregiamente negli anni successivi. L’ambientazione notturna e corrusca è quella che ritroviamo nel Compianto sul corpo di Abele della collezione Zoppas di Conegliano e nel Leandro morto pianto dalle Nereidi della Fondazione Rizzi di Sestri Levante. »
da Annalisa Scarpa “Sebastiano Ricci: catalogue raisonné”
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